Chiara Tagliaferri: «Da bambina non mi sentivo all’altezza, ma i figli meno guardati si salvano»- Corriere.it

2022-05-14 20:57:07 By : Ms. Cathy wu

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Il suo primo romanzo è un incrocio di fantasia e di autofiction. Che parla di streghe “reali”: «Sono donne che tengono sotto scacco altre donne in una maledizione perpetua attraverso il denaro e dunque il controllo»

«Fin da bambina ho sempre creduto di non essere all’altezza di niente» dice Chiara Tagliaferri, coautrice con Michela Murgia di Morgana , oggi al primo romanzo, Strega comanda colore (Mondadori). La storia di una bambina, poi ragazza, che nasce e cresce a Piacenza, e da Piacenza fugge per salvarsi dal maleficio che condanna le femmine di famiglia alla solitudine d’amore. Così, mentre la protagonista progetta la fuga, attorno si muovono personaggi memorabili come la sorella Sara, la predestinata ad avere successo che invece fallirà. E la madre, che accudisce indifferentemente vivi e morti - lucida le tombe dei suoi morti, stira gli abiti dei suoi vivi. Fino alla nonna crudele che ricatta, regna grazie ai soldi.

Memoir, autofiction, quanto ci sia di vero poco importa, questa scrittrice ci fa entrare nel suo mondo popolato di angeli di gesso, fenicotteri, vestiti, tantissimi vestiti necessari a diventare altro, a mettere in scena la fuga che un giorno avverrà - nel libro avviene. E lei, la bambina che aspetta la morte della nonna per ballare sulla sua tomba con le scarpe rosse, può essere tutto: maschio, femmina, hippie, rockstar, amante di assassino, ricca, ricchissima, poverissima, ladra.

Perché questo libro? «Per dare ai miei morti un’altra sepoltura. Anzi: volevo seppellirli io, poiché al tempo ero troppo piccola oppure non c’ero proprio. Non sono riuscita a vivere i funerali di chi amavo come avrei voluto».

Esempio? «Mio fratello, il primo figlio dei miei genitori, morto alla nascita, che io ho conosciuto solo dai racconti di mamma».

Nel romanzo? «A causa di una falda acquifera deve essere disseppellito e portato altrove».

Quindi? «È successo davvero: io, mia madre e mia sorella ci siamo prese l’urna delle sue ceneri e l’angelo di gesso della sua lapide per portarli via. In macchina, sul sedile posteriore, io tenevo l’angelo stretto tra le braccia con il timore che potesse rompersi».

Portato dove? «Nel paese di origine di mio padre, nella cappella di famiglia».

Cos’era per lei bambina quel fratello? «L’angelo più bello del cimitero grazie a mia madre che lo puliva ogni volta. L’angelo che pregavo».

Una preghiera? «Sempre la stessa: “fai che mi lascino andare».

La copertina di «Strega comanda color», il primo libro di Chiara Tagliaferri Ovvero? «In psicoanalisi si dice che i figli meno amati hanno più possibilità di salvarsi in quanto meno guardati. La protagonista del romanzo, meno guardata, a differenza della sorella, riesce ad allontanarsi».

Fuggendo da? «Da una madre che vuole le figlie sotto il suo tetto perché vederle corrisponde a tenerle in vita. Se le ha sotto gli occhi, respirano».

Sua madre nella realtà? «Pur essendo molto poveri, i miei genitori sembravano eternamente usciti da una partita di tennis de Il giardino dei Finzi-Contini. Oggi, a ottantadue anni, mia madre ha ancora tutti i capelli neri, mai tinti. Mai andata dal parrucchiere o dall’estetista. Persino il giorno del matrimonio si è pettinata e truccata da sola».

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Motivo? «Cresciuta in una famiglia dove la bellezza era considerata una colpa, lei si è sempre vergognata».

Conseguenza? «Tanti talenti sprecati, come quel b movie, Planet Terror, in cui l’eroina, ogni volta che salva l’umanità, fa l’elenco dei suoi talenti sprecati».

Un talento di sua madre? «In spiaggia, mentre io tentavo di costruire castelli che crollavano, lei, con lo stecchino del ghiacciolo, faceva delle sculture incredibili. In genere volti di donna. Allora sulla sabbia io vedevo comparire gli occhi che avrei voluto, la bocca, i capelli».

Salvava l’umanità come la protagonista del b movie? «Salvava me».

E se stessa? «Rimasta vedova giovane, seppur corteggiatissima, non ha mai voluto altri uomini al suo fianco. Diceva: “uno ne ho scelto, e Dio me lo ha tolto”. Dopo la morte di mio padre si è dedicata unicamente a noi figlie».

La sorella dentro e fuori il romanzo? «Luminescente, bellissima».

Gli anni vissuti insieme? «A Piacenza c’era solo un esemplare per specie, così lei era La bella. Detta anche “Testa di leone” perché si cotonava i capelli. Quando l’accompagnavo al mercato, mi accorgevo della sua bellezza per come veniva guardata».

Tornando al libro, chi sono le streghe? «Donne che lanciano incantesimi e maledizioni. Donne che tengono sotto scacco altre donne in una maledizione perpetua attraverso il denaro, e dunque attraverso il controllo».

Gli uomini? «Nel libro assassini, malati e morti». Ragione? «Non l’ho deciso a priori, è venuto».

Suo padre? «Come quello del libro è morto giovane. Io avevo quindici anni».

Ricordi? «Lavorava fuori, perciò durante la settimana era una voce. Telefonava e ci raccontava che faceva e cosa vedeva».

Sensazione? «Gelosia. Perché quella vita era senza di noi. Ci descriveva gli aerei che prendeva, mentre nessuna di noi aveva mai preso un aereo».

Primo aereo per Chiara Tagliaferri? «A ventitré anni».

Quanto questo romanzo è la sua storia, e quanto non lo è? «Valgono le parole di Zelda Fitzgerald: “l’unica differenza tra realtà e finzione è il fatto che uno ci creda o meno”».

Lei ci crede? «La finzione letteraria è il luogo migliore dove dire la verità». La sua verità? «Non esiste».

Quando va via da Piacenza? «A vent’anni».

Destinazione? «Torino, scuola Holden. Poi Roma. Ma per poterlo fare ho dovuto lavorare come segretaria nello studio di un commercialista».

E? «Il primo stipendio è stato una grande emozione». Messo da parte? «Vado nel negozio più bello di Piacenza, Piccadilly, e lo spendo tutto in uno zainetto di Prada».

A quel punto? «Mi sono sentita qualcuno. Mi guardavo nello specchio del camerino con quello zainetto sulle spalle».

Cosa vedeva? «Scopro che ci si può guardare avanti e dietro nello stesso istante. A casa io dovevo arrampicarmi su una sedia per vedermi a figura intera, e voltarmi, per cercare di vedermi da dietro».

La preghiera all’angelo lontana da Piacenza? «Fammi tornare a casa».

Roma. «Lavoro in radio. Inizio a scrivere per gli altri. Non mi sentivo capace di scrivere per me, davo le mie parole a quelli più coraggiosi. Ha presente Moreno con Rockfeller ( ndr: ventriloquo col corvo nero)? Io ero il Moreno degli speaker radiofonici».

La vita a Roma? «Senza soldi».

Soluzione? «Io e le mie amiche facevamo shopping nei mercatini, via Sannio, Porta Portese. “Stormi di rondini impazzite pronte a planare in picchiata su un nuovo mercatino”, ecco cosa eravamo».

Quei vestiti? «Tutto ciò che possedevo stava in una valigia. Il mio fidanzato del tempo, per vendicarsi, ha gettato nel Tevere quella valigia con tutti i vestiti».

Vendicarsi di? «Era geloso. Ma ne aveva le ragioni». Cioè? «Non potendomi pagare un affitto, stavo da lui. Peccato che quando non c’era io invitassi altre persone».

Cosa perde nel Tevere? «Una parte di me».

La moda per lei? «Da bambina, con le paghette, compravo i giornali di moda, preferito: Vogue. Ritagliavo i vestiti che mi piacevano. I look. Su quelle riviste ho imparato a riconoscere gli stili e gli stilisti».

Lezione importante? «”Spariti gli dei, ci restano solo gli oggetti”, sono d’accordo con Proust».

Come? «Vengo da una famiglia in cui le cose belle non vanno usate, ma risposte e tirate fuori per le occasioni importanti, se non addirittura per la morte. Il vestito per la bara».

In che modo questo l’ha condizionata? «Mi sono ripromessa: cenerò ogni sera con candelabri d’argento, avrò ogni mattina fiori freschi».

Formula magica? «A ripeterle, le cose belle avvengono». Chi è stata lei grazie agli abiti? «Chiunque». In particolare? «Maria Schneider, gli stessi stivali, la stessa giacca col pelo. Sharon Tate. L’idea era che con i loro vestiti potessi vivere anche le loro vite. Di nuovo il concetto delle cose belle ripetute e mimate che avvengono».

Intanto a Piacenza? «Mia madre butta i miei abiti, i miei armadi vengono occupati da Sara. Armadi e cassetti. Rimane un’unica traccia di me, nell’anta interna dell’armadio: la foto di Kate Moss».

Kate Moss? «Ancora oggi ho il Google alert su Kate Moss. Mi arriva ogni notizia che la riguarda».

Cosa significa Kate Moss per lei? «Lei viene da un quartiere periferico malfamato, sarebbe potuta finire male, depressa, drogata. Invece è diventata il sogno».

Come sarebbe potuta finire Chiara? «A scuola ci avevano fatto leggere Cristo si è fermato a Eboli. C’era una frase, la mia preferita: “il cielo era rosa verde e viola, gli incantevoli colori delle terre malariche, e pareva lontanissimo”».

Il suo di cielo? «Anche il mio verde rosa viola. Dovevo partire». Altrimenti? «Fin da bambina, attraversando il ponte direzione centro commerciale, io guardavo sotto».

E? «Pensavo: finirò laggiù, in fondo al Po». Poi? «Me ne sono andata».

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